Per essere inclusivi non basta comunicarlo
- Posted by Carolina Lucchesini
- Categories Blog
- Date 19 Gennaio, 2021
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Il linguaggio dà forma al nostro pensiero e per essere inclusivi non basta comunicarlo. Quanto pensiamo a come lo utilizziamo?
Un’intervista a Alexa Pantanella, un passato come Global Head of Marketing Communications di Luxottica, Ted Speaker e oggi CEO di Diversity&Inclusion Speaking, che accompagna le aziende (e non solo) nel parlare la lingua dell’inclusione.
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Alexa, il tuo progetto Diversity and Inclusion Speaking si occupa di insegnare alle aziende e alle organizzazioni a “parlare inclusivo” e parte da questo assunto di base: “Il linguaggio dà forma al nostro pensiero. Quanto pensiamo a come lo utilizziamo?” Da cosa è nata l’idea del progetto?
Il progetto, in realtà, è nato per caso. Dall’incontro, anch’esso casuale, che ho avuto con le tematiche dell’Inclusione delle Diversità. Andando ad un evento, ho scoperto quanto stesse avvenendo nel mondo delle aziende (italiane ed estere) per favorire e promuovere l’Inclusione delle Diversità, e la cosa mi ha subito appassionata. Ho deciso di approfondire. Più approfondivo e più mi appassionavo. Il punto di non ritorno è arrivato quando mi sono chiesta: può un’organizzazione dirsi pienamente inclusiva se non porta avanti anche un lavoro strutturato e consapevole sul linguaggio che utilizza? C’è qualcuno che accompagna le aziende in tal senso? Non trovando risposta a queste domande, ho deciso di provarci io, fondando D&I Speaking, che funziona esattamente come un corso in mandarino o spagnolo, solo che il lavoro si fa sulla proprio lingua madre: c’è un test di ingresso per valutare il proprio livello di competenza linguistica iniziale, poi su questa base viene suggerito il corso/percorso formativo (che si articola in workshop ludici e partecipativi, anche online) e un reassessment finale (sulla base di KPI e obiettivi predefiniti) per valutare l’impatto che si è generato. A quel punto si può dire di essere “D&I Speakers”.
Puoi spiegarci meglio in che modo il linguaggio che utilizziamo può risultare poco inclusivo e come può arrivare a veicolare pregiudizi e stereotipi?
Certo. Prendiamo alcuni esempi di frasi che potrebbe succedere di dire o sentire:
“Oggi con noi c’è anche Paola, la nostra giovane e bella analyst”, “ma dai, non dimostri per niente i tuoi anni!”, “Io non ho nulla contro le persone gay, ma non capisco perché parlarne sul lavoro”.
Questi sono alcuni esempi di espressioni che, ad una prima lettura, potrebbero sembrare innocue, espressioni che è possibile sentire nella propria realtà lavorativa. A voler guardare meglio, invece, queste espressioni, anche se partono da buone intenzioni, celano dei pregiudizi e possono risultare poco rispettose e inclusive.
Come mai, ad esempio, alle donne facciamo spesso complimento sull’aspetto fisico e lo stesso nona avviene per i colleghi uomini?
Che idea abbiamo del tempo che passa e dell’invecchiamento, che ci porta a sottolineare il giovanilismo di alcune persone ? E perché il proprio orientamento (se omoaffettivo) dovrebbe essere un fatto privato, mentre se etero affettivo è un fatto “normale”? Queste sono alcune domande da porsi per acquisire maggiore consapevolezza riguardo al linguaggio che utilizziamo su base quotidiana. Per renderci conto di come, involontariamente, alcune espressioni possono essere (ed avviene spesso) veicolo di preconcetti e stereotipi, che provocano, sia in chi le utilizza, sia nelle persone destinatarie, reazioni diverse da quanto immaginiamo. Proprio perché il modo in cui parliamo definisce il modo in cui pensiamo.
Secondo una ricerca Nielsen, il 38% degli italiani è più disposto ad ascoltare/seguire un brand sensibile ai temi della diversity. Perché, secondo te, per le aziende può essere importante usare un linguaggio inclusivo nella loro comunicazione interna ed esterna?
Sono molti gli studi che dimostrano un impatto diretto e positivo tra una maggiore attenzione all’inclusione e le metriche di business, quali Considerazione, Preferenza di marca, Intenzione di acquisto/riacquisto, Trust, NPS e non ultimo il fatturato. Soprattutto se l’impegno a favore dell’inclusione viene vissuto in primis all’interno dell’azienda e poi comunicato verso l’esterno, in modo autentico, perché coerente con i Valori, la Mission e il Purpose di un Brand. Bisogna fare attenzione a non saltare “sul carro dell’Inclusione” per pura ricerca di incremento del business, perché la non genuinità di questa scelta potrebbe essere un pericoloso boomerang.
Il confine tra l’interno e l’esterno dell’azienda sappiamo che è ormai molto labile e sottile. Quindi ciò che mostriamo all’esterno, è bene che sia il riflesso di ciò che viviamo all’interno.
Per questo motivo, ciò che preferiamo fare è accompagnare le organizzazioni lungo percorsi dedicati al linguaggio inclusivo, che partono dall’interno dell’azienda, coinvolgano le persone – coerentemente con i Valori dell’organizzazione – e poi ispirino anche scelte e progetti di comunicazione verso l’esterno.
Nonostante questi dati, sembra che il linguaggio del marketing – soprattutto sulle tematiche di genere e di rappresentazione di corpi femminili – sia ancora nella preistoria. Guardiamo l’ultima campagna denunciata da Hella Network e i tanti casi in cui il corpo delle donne è ancora al centro di un modo di fare pubblicità offensivo e non rispettoso.
Il marketing è per certi versi la punta di un iceberg, che ha ramificazioni più profonde. Il tema della rappresentazione della donna – dato che parliamo di questo nello specifico – parte dalla prima infanzia. Esistono ancora numerosi esempi ed evidenze di come messaggi pubblicitari, film, giocattoli, cartoni animati, libri di testo, continuino ad utilizzare codici o riferimenti che alimentano stereotipi e preconcetti, tra cui quelli di genere spiccano con forza.
Tutto questo nonostante la consapevolezza, ormai diffusa, del potere delle parole e delle immagini nel dare forma ad azioni, comportamenti ripetuti e fenomeni culturali.
Certo, il mondo del marketing e della pubblicità, potrebbe e dovrebbe (e lo dico da professionista di questo settore) essere la scintilla e il motore del cambiamento, anziché continuare più spesso – tolti alcuni casi virtuosi – a riproporre rappresentazioni e modelli (di genere e non solo, se si pensa anche a temi legati all’età) desueti.
Tu incontri tantissime aziende con i tuoi percorsi formativi. Quali sono secondo la tua esperienza i punti più ostici su cui bisogna lavorare?
Abbiamo la fortuna di collaborare con aziende genuinamente impegnate in percorsi autentici a favore dell’Inclusione e questo consente, anche a noi, di continuare ad imparare, ad ogni incontro.
Un punto cruciale, credo, in ogni percorso è evitare l’effetto di “esclusione al contrario”. Per cui, se favoriamo la presenza, visibilità e crescita di un gruppo considerato “minoritario”, come può essere quello delle donne o delle persone LGBT+ nel mondo del lavoro, che questo non venga vissuto come penalizzante da parte del gruppo ritenuto “maggioritario”. Il rischio è di creare delle tensioni e criticità al contrario, che possono ostacolare un percorso di Inclusione. E’, invece, chiave stimolare l’alleanza tra i vari gruppi e il senso di crescita e benefici condivisi, uscendo dalla logica del “gioco a somma zero”. Insomma, come ho sentito dire: 1 + 1 = 11 per tutte e tutti.
Come valutare e definire l’approccio di comunicazione più efficace?
Fortunatamente, ci sono diversi brand e aziende che stanno spingendo, attraverso la loro comunicazione, per diffondere rappresentazioni più al passo con i tempi della nostra società.
Noi cerchiamo di applicare una griglia di analisi e metodologica, che è poi quella che sottende al nostro corso in linguaggi inclusivi, che si articola in 5C: Consapevolezza, Conoscenza, Confronto, Coerenza, Costanza. Quando sussistono tutti e 5 questi ingredienti, a nostro avviso, la ricetta – sia all’interno sia all’esterno dell’aziende – può dirsi vincente.
La Consapevolezza riguarda il punto di partenza, il prender atto che tutte e tutti abbiamo pregiudizi e che gli stessi spesso si riflettono nel modo in cui comunichiamo (come singole persone e come aziende). Prenderne atto è il primo step per cercare di mitigare e gestire pregiudizi e stereotipi, evitando di cadere in rappresentazioni desuete e stereotipate (ad esempio delle donne, dato che se ne parlava prima), concentrandosi invece su messaggi rilevanti ed efficaci.
La Conoscenza di ciò e a chi comunichiamo è da sempre una regola d’oro per chi fa questo mestiere. E’ ancor più vero quando scegliamo di occuparci delle Diversità, dato che potremmo sentirle vicine e familiare. Bisogna approfondire, sviluppare sensibilità e conoscenza, per evitare di sottovalutare quelle che potrebbero sembrare “sfumature” di poco conto.
Il Confronto può venirci incontro per acquisire maggiore conoscenza di chi e ciò ci appare diverso. Oltre a eventuali ricerche di mercato, passare del tempo di qualità e riuscire in qualche modo a “mettersi al posto” dell’altra persona (o del gruppo che si vuole raccontare), soprattutto se la percepiamo diversa da noi, può essere molto utile per evitare di approcciare le diversità attraverso i propri pregiudizi inconsapevoli (unconscious bias) e gli automatismi.
E’ necessario assicurare anche Coerenza tra il dire e il fare, tra il dichiarare e il mettere in pratica nel nostro quotidiano. Come dicevamo prima, è necessario avere Coerenza anche tra ciò che comunichiamo verso l’esterno dell’azienda e come usiamo il linguaggio internamente. Essendo il confine tra l’interno e l’esterno dell’organizzazione sempre più labile.
E, infine, la Costanza. Il percorso verso una comunicazione più inclusiva, non si può fare dall’oggi al domani. Non è una campagna one-shot. E’ un percorso che si costruisce nel tempo, con lavoro e impegno costanti.
Quali sono le aziende che comunicano meglio in questo senso?
Seguendo la nostra impostazione metodologica, aziende come Unilever, con i loro marchi Dove e Axe, stanno facendo da anni un lavoro importante per contrastare radicati stereotipi di genere sia al femminile, sia al maschile, a livello internazionale. Così come Procter & Gamble, con la campagna “like a girl”, ma anche il marchio Fairy in UK. O ancora Coca Cola e Ikea, che spingono per una rappresentazione delle persone LGBT+ o delle famiglie interrazziali, equa e contemporanea.
Fortunatamente, alcune grande aziende stanno facendo da apripista. Ne ho citato solo alcune, ma ce ne sarebbero anche altre. E’ necessario che l’impegno e l’attenzione verso una comunicazione maggiormente inclusiva e rispettosa delle diversità presenti nella società (che poi altro non sono che “normalità”), sia sentito e diffuso tra un numero sempre crescente di organizzazioni..
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